Perché ho cantato nelle segrete: una profezia per chiudere il 2023

Cosa ci ha offerto il 2023

Il 23 giugno 1998, all’incontro annuale dell’Associazione per lo studio scientifico della coscienza (ASSC) a New York City, il neuroscienziato Christof Koch fece una scommessa con il filosofo David Chalmers. La sua scommessa? Che in 25 anni i progressi tecnologici avrebbero svelato gli sfiancanti oscuri meccanismi e che stanno dietro alla produzione neuronale della coscienza.

Al momento della loro interessante scommessa – la cui posta superava di gran lunga la bottiglia di vino che il vincitore avrebbe regalato ai vinti 25 anni dopo, in un luogo concordato – Koch era ottimista sul fatto che “certi progressi tecnologici” (come la risonanza magnetica funzionale) avrebbero reso più semplice ai ricercatori l’osservazione ravvicinata dei piccoli avvenimenti del nostro cervello. Predisse che un lasso di 25 anni di sperimentazione dedicata avrebbe concesso ai ricercatori il tempo sufficiente per risolvere l’enigma secolare che ha afflitto filosofi e scienziati per millenni: come arriviamo a essere coscienti anziché no?

Chalmers, d’altro canto, non condivideva l’ottimismo di Koch. Esistevano aspetti del mistero della coscienza che ne giustificavano l’intrattabilità. Il filosofo scelse di assumere una posizione più cauta: ci sarebbero voluti più di 25 anni per comprendere finalmente la coscienza. Probabilmente svariati multipli di quel lasso di tempo.

Quest’anno, il 2023, la scommessa è scaduta e, come avrete intuito, Koch si è arreso a Chalmers. In una rara dimostrazione di aggraziata contraddittorietà, il neuroscienziato ha regalato al suo avversario una “cassa di ottimo vino portoghese per onorare il suo impegno”, e poi ha continuato a riproporre la sua convinzione che una risoluzione fosse proprio dietro l’angolo: “Venticinque anni da adesso è realistico, perché le tecniche stanno migliorando e, sai, non posso aspettare molto più di 25 anni, data la mia età.”

Il 2023 potrebbe non averci fornito i segreti della coscienza a lungo cercati, ma ha evidenziato in vari modi quanto “poco” sappiamo di noi stessi, dei mondi che ci arruolano, dei gesti che ci innervano, delle energie che ci informano e dei pattern territoriali che ci bloccano in modi abitudinari di fare esperienza. Quest’anno ci ha portato un evento sulla giustizia climatica presieduto da parti accusate di complicità con le Big Oil; ci ha portato a un’altra soglia dolorosa nel conflitto israelo-palestinese in corso, un problema apparentemente così intransigente a soluzioni politiche che un ex portavoce dell’IDF [Israel Defense Forces, forze armate dello stato di Israele, n.d.T.] ha dichiarato in televisione: “La politica ci ha deluso; abbiamo bisogno di una terza via”. È stata la prima volta che ho sentito questa affermazione e il battito del mio cuore si è elevato di diversi decibel. Eccolo qui, in pieno giorno, il riconoscimento che le creatività dell’ordine pubblico hanno ormai incontrato un dio sconosciuto, un agnostos theos, uno squarcio feroce nel tessuto dell’ordinario. Ciò di cui c’è bisogno ora è qualcosa di più di un altro cessate il fuoco, più di rimedi convenienti e più di un altro frettoloso accrocchio di “pace” (che un rifugiato e regista teatrale palestinese mi ha detto – appena un giorno prima di essere rapito dall’IDF – sembrava una “guerra con qualche altro nome”). Ho riguardato alcune parole scarabocchiate nell’ultima settimana del 2019 a proposito di una “terza via” e del fallimento dei rimedi civilizzatori – prima che fossimo introdotti in un decennio caratterizzato sin qui da pandemie e guerre:

“Sono abbastanza fiducioso – anche se gli oceani ribollono e gli uragani si abbattono violentemente contro le nostre coste, un tempo sicure, e l’aria trasuda per il calore di una catastrofe imminente e i nostri pugni protestano contro la negazione della giustizia climatica – che esista un percorso da imboccare che non ha nulla a che vedere con la vittoria o la sconfitta: un luogo di cui non conosciamo ancora le coordinate; una domanda che non sappiamo ancora come porre. Lo scopo della freccia scoccata non è semplicemente quello di perforare il bersaglio e vincere il trofeo: lo scopo della freccia è cantare il vento e rifare il mondo nella brevità del volo. Ci sono cose che dobbiamo fare, parole che dobbiamo dire, pensieri che dobbiamo pensare, che non assomigliano per niente alle immagini di successo che hanno posseduto così profondamente le nostre visioni di giustizia.

Possa questo nuovo decennio essere ricordato come il decennio dello strano cammino, della terza via, del binario rotto, della disgregazione trasversale, del momento kairotico, del movimento postumano per l’emancipazione, del dono del disorientamento che ha aperto nuovi luoghi di potere, degli arti rallentati. Possa questo decennio portare più che semplici soluzioni, più che un semplice futuro – possa portare parole che ancora non conosciamo e temporalità che non abbiamo ancora abitato. Che si possa essere più lenti di quanto la velocità sappia calcolare e più veloci di quanto la forza di gravità delle parole possa imprigionare. E che possiamo essere visitati così a fondo, incontrati in luoghi selvaggi in modo così travolgente, da rimanere distrutti. Pronti per il compostaggio. Pronti per l’impossibile.

Benvenuti nel decennio del fuggitivo”.

‍“Deve essere sembrata la fine dei tempi”

C’è un tenero sconvolgimento che si gonfia nel terriccio delle cose: una sottile consapevolezza che siamo bloccati. Che siamo già stati qui. Che, sia che svoltiamo a destra o a sinistra, continuiamo a ritrovare gli stessi graffi ostinati che abbiamo lasciato per segnare il nostro ultimo checkpoint.

Sono perennemente perseguitato dalla sensazione che stiamo creando i nostri presenti e viviamo i nostri giorni all’interno degli echi epigenetici di una crisi atmosferica che infiammò il pianeta 42.000 anni fa. La storia di quell’evento è spesso raccontata a partire dal suo lungo titolo: l’Evento Geomagnetico di Transizione di Adams (o semplicemente l’Evento di Adams): uno spostamento dei poli magnetici rompe il cielo, ornandolo “di tempeste elettriche, aurore diffuse e radiazioni cosmiche”. (https://newsroom.unsw.edu.au/news/science-tech/ancient-relic-points-turning-point-earths-history-42000-years-ago). L’inversione dei poli lasciò le superfici della Terra bruciate a causa del passaggio dei venti solari, rendendo molti ambienti inadatti alla vita. “Deve essere sembrata la fine dei tempi”, afferma il professor Alan Cooper, uno dei ricercatori del South Australian Museum che ha contribuito a identificare gli impatti ambientali dell’evento.

Ciò che sembra altrettanto interessante dell’Evento di Adams (a parte il numero ’42’ e la sua consonanza con la Guida galattica per autostoppisti di Douglas Adams) è che sembra spiegare “l’improvvisa diffusa comparsa dell’arte figurativa nelle caverne di tutto il mondo” – l’esplosione di arte rupestre in ocra rossa, dipinta con le mani, in 400 siti esistenti dalla Francia all’Indonesia.

L’associazione tra l’arte rupestre decorativa e una crisi planetaria può essere accidentale: non c’è motivo di credere che l’“arte” figurativa sia emersa per la prima volta come conseguenza. Può darsi che le grotte abbiano preservato l’arte che ora possiamo vedere, mentre le opere d’arte in superficie siano lentamente svanite, esposte com’erano agli elementi. Anche se la loro congiunzione è involontaria, qualcosa nell’intreccio tra profondità e decorazioni, discesa e disegno, deiscenza e divinità, grotte e arte di creare santuari, brilla di radianze archetipiche. Forse la forma d’arte emersa da quella crisi era un divenire-respons-abili del momento, un tracciato profetico di linee che si rinfocolavano in appendici umanoidi ma servivano anche come una sorta di sensualità litica, un nascondiglio fuggitivo che pregava all’indeterminatezza dei tempi. Un venire a patti con. Un essere abbracciato in flagrante.

Sento che siamo in presenti di discesa.

Un momenti di imbarco.

Lo percepisci anche tu?

Hai la sensazione che potremmo aver bisogno di viaggiare? Che le nostre modalità di appartenenza possano essere problematiche per via delle forme che abbiamo assunto? E che forse una sorta di catabasi o di discesa carnevalesca possa segnare un ammutinamento sensoriale dalla cosiddetta “esperienza”? Credo di si. La superficie – per lungo tempo il progetto politico della modernità bianca – non può più sostenere il peso della proliferazione del sé individuale dissociato, il fulcro della sua etica civilizzatrice. La stabilità bianca è pesantemente messa a dura prova dai venti solari di un mondo che non vuole restare fermo.

Un cordoglio, una blackness di accompagnamento – lo stesso fiume di mondo fisico e di forza creolizzante che scorreva, lambiva e ridacchiava insieme alle navi di schiavi in partenza – ribolle ai margini, lacerando l’ordine pubblico, tirando le maniche alla civiltà, invitandoci a prostrarci. A cadere al suolo.

Creare santuario nelle segrete della blackness

Le prospettive di una terza via – di un’ospitalità radicale che raccoglie i caduti, un tipo strano di politica transnazionale, uno sconvolgimento postumanista-decoloniale che sembra un’estetica baccanale eseguita all’interno di crepe e caverne – sono il motivo per cui parlo e scrivo di blackness nei modi in cui lo faccio, mettendo attenzione a distinguere tra la blackness identitaria della “Grande B” (che è più impegnata nella critica, nella negoziazione dell’inclusione e nella ricerca di maiuscole, visibilità e rappresentazione) e una blackness animista, anagrammatica, in corsivo, in minuscolo che apre spazi sorprendenti per strane alleanze all’interno di una politica dell’invisibilità. Questo è il motivo per cui teorizzo un divenire-nero come le vitalità sincopate che indeboliscono l’ordine pubblico, chiedendo qualcosa di più della giustizia, chiedendo una sperimentazione collettiva. Questa blackness panenteistica e paraontologica ci porta in luoghi controversi; ci porta verso soglie profonde, oscure, terribili e ci chiede di ascoltare, danzare, costruire, riposare, piegare il nostro corpo.

Questa blackness – la promessa di una solidarietà sconosciuta in tempi di binarismi esausti – mi ha portato in una segreta in Ghana.

‍Credo che le storie dei miei viaggi come intellettuale pubblico e studioso nero abbiano raggiunto una soglia critica giorni fa (nei primi giorni di dicembre 2023) quando io, insieme ad altri due studiosi neri – Resmaa Menakem e Orland Bishop (https://www . threeblackmen.com) – siamo stati accompagnati da un gruppo transnazionale nelle profondità cavernose del Castello di Elmina.

Fondato nel 1482 dai portoghesi, il Castello custodiva nelle sue profondità corpi africani: torturandoli, violentando le donne del continente, generando figli strappati dal grembo delle loro madri indesiderabili, mascherando le loro nefandezze lontano dalla gloria del pubblico, dalla luce di un Chiesa anglicana costruita appena sopra le segrete.

Non c’è modo di descrivere l’orrore di quel Castello.

Nelle “Men’s Dungeon” [la parte riservata agli schiavi maschi, n.d.T.], una guida ghanese incredibilmente eloquente ci annunciò con la sua voce incrollabile e stentorea che quelli di noi che avevano avuto il coraggio di camminare nelle sue oscure profondità si trovavano ora nel luogo in cui erano stati eliminati un migliaio di uomini Neri. Un migliaio di uomini furono stipati in cinque “stanze” adiacenti – anche se chiamare “stanze” quelle umide, buie, scarne e geometriche aberrazioni dello spaziotempo sarebbe eccessivo. Là, tra vomito e morte, con poca aria a confortare i polmoni e senza luce a onorare i loro occhi, i catturati aspettavano diverse eternità prima di vedere il sole. Coloro che creavano troppi problemi venivano portati attraverso l’ampio cortile del Castello in una prigione più piccola e senz’aria, costruita per uccidere lentamente i suoi occupanti. Gli schiavisti furono attenti a costruire questa stanza più piccola vicino a dove si trovavano le donne, “in modo che le donne potessero sentire le loro urla… in modo che potessero essere spezzate dalla morte dei loro uomini, dei loro fratelli, dei loro padri, dei loro figli”.

Mentre percorrevo ogni doloroso passo nei sotterranei, sapendo che un mucchio contorto di arti neri una volta occupava quel “punto”, un triste leitmotiv rubava l’aria densa intorno a me, punteggiato da singhiozzi e occasionali grida di dolore del gruppo che arrivava con noi, i “Three Black Men”, nei nostri discorsi pubblici e nei nostri rituali. Ho trattenuto le lacrime mentre consideravo l’architettura del luogo, gli enormi investimenti di tempo e considerazione necessari per trasformare i corpi in malleabili bocconcini di carne utili alle vicissitudini delle piantagioni e delle economie del Nuovo Mondo. Non si commettano errori in proposito: gli schiavisti erano economisti, urbanisti di qualche tipo. Progettarono le segrete sotto la superficie per sovvenzionare la piatta razionalità pubblica che stavano assemblando in superficie. Sebbene fosse oscuro e terribile, per me era più facile vedere i modelli luminosi che hanno abitato il mio pensiero per anni: le linee geometriche nette e le opportunità della civiltà moderna, la razionalità della giustizia e l’idea del gentiluomo sono sempre state in debito con la brutalità dei sotterranei e delle profondità indicibili. La segreta è il curriculum nascosto della modernità bianca, l’abiezione protesica alla sua tesi di cittadinanza.

La segreta non è un luogo in sé. È un luogo nessun-luogo, un luogo senza luogo, un “luogo” a cui è legata la localizzabilità del cittadino-soggetto, l’ombra viscerale delle pretese di moralità fondazionale della città. Il sotterraneo è il modo in cui è stato inventato il bianco. La segreta è quel bambino di Omelas la cui miseria ha acquistato l’allegria e il progresso della città. La segreta è l’abietto eccesso di cui non si tiene conto. L’ospite nascosto ad ogni pasto.

Mentre il gruppo si trascinava attraverso la forza dei secoli, attraverso i campi di forza del dolore, mi sono soffermato in una “stanza” della segreta dove tre minuscoli rettangoli tradivano tre esitanti flussi di luce nello spazio altrimenti di ossidiana. A tentoni mi sono diretto verso il muro più vicino e mi sono accasciato sul pavimento, permettendo ai miei palmi di toccare l’umidità. Poi, come un rubinetto che non riesce a trattenere le onde che ruggiscono nelle sue vene, ho pianto. Ho pianto e ho parlato con testi rapidi e impreparati di poesia carica di dolore. Mi sono sentito parlare come se le parole non fossero mie.

La voce che parlava ringraziò gli anziani le cui cellule vorticavano con la terra umida e fresca sotto il mio corpo. La voce che parlava ritmava le soluzioni pratiche che dovevano essere prese per creare un pubblico adatto all’individuo dissociato, al cittadino-soggetto abilmente simboleggiato dall’uomo bianco, e di come quello stesso pubblico fosse ora in fiamme. Ho sentito voci di venti solari che spazzano la superficie, trasformando tutto ciò che toccano in carbone. È ora di scendere. Ma scendere dove? Non in un “dove”, non in un “luogo”, la blackness non ha destinazioni, né scopo, né cartografie convenienti e stabili. La blackness non è un’utopia. Discendere è un “come”, non un “dove”. Un luogo senza luogo, un processo, non un rimedio. Questo sotterraneo è un come.

La voce che parlava faceva risuonare ogni sillaba come se fosse il suo ultimo respiro, ogni parola tagliava lo spessore come la scheggia di un fungo atomico. Ogni parola libata con le lacrime.

Il nostro lavoro è fare santuario. Ri/tornare a questo luogo senza luogo e decorarlo. Raccogliere i corpi scartati dai posti in superficie distrutti, mentre l’etica civilizzatrice della whiteness si agita sotto il peso delle proprie aspirazioni a tenere in alto il sé dominante. La pietra scartata è ora diventata la pietra angolare. Che gioia. Che gioia. Che gioia.

Non so quanto tempo ho trascorso in quel “posto”. So che diverse persone preoccupate sono venute a controllarmi e hanno pensato che fosse meglio lasciarmi in pace, magari semplicemente vigilare quando ne avessi avuto bisogno. Ancora più oscuro è stato il momento in cui le mie parole liberate dalle lacrime si sono prosciugate, svuotandosi nelle segrete. Tuttavia c’era qualcos’altro, qualcosa di più delle parole che voleva uscire.

Una canzone.

Sembrava “giusto”. È venuta dal profondo delle mie storie giovanili nella fede cristiana così come dai margini della mia finale apostasia. È venuta dalla cadenza spirituale della mia carriera di intellettuale pubblico, la cui sfiducia nei confronti delle autostrade della giustizia mi ha portato ad articolare crepe più strane come coreografie di emancipazione più promettenti. Ho aperto la bocca:

Guadate le acque.

Guadate le acque, bambini.

Guadate le acque.

Non sapete che Dio sconvolgerà le acque?

Non sapete che Dio sconvolgerà le acque?

La canzone – e il mio cantare – si trovavano a cavallo di molteplici linee temporali, riconvocando il passato, il presente e il futuro al crocevia del nostro essere bloccati. In qualche modo, Dio era allo stesso tempo l’antica discesa degli angeli che agitava le acque curative della piscina (“vicino alla Porta delle Pecore dai cinque colonnati coperti”, https://biblehub.com/john/5-3.htm) abbastanza a lungo da diventare ristorativa per la prima immersione del fedele; l’attuale turbamento che ha attraversato il pianeta, sconvolgendo il monumento dell’Uomo, sussurrandone l’entropia, aprendo tracce sediziose di marronage dalla piantagione delle nostre trappole e fatiche; così come la futura promessa del mostruoso.

Mi alzai con quella canzone sulle labbra e mi unii al gruppo che era ormai nel bel mezzo di un momento storico: il primo sacrificio rituale mai compiuto con animali nel ventre di una prigione di schiavi. Mai nella storia di quel luogo – il più antico monumento al Middle Passage – era accaduta una cosa del genere. Non quando il presidente Obama ha visitato il castello. Non quando la Porta del Non Ritorno fu caricata per la prima volta di una nuova insegna che segnava un nuovo tipo di accoglienza: “Porta del Ritorno”. Il sangue degli uccelli versato, gli dei dei santuari-a-venire placati, camminammo attraverso le linee serpeggianti verso l’imbarco, uscendo verso lo sciabordio delle onde e delle acque che gli schiavi vedevano quando dicevano loro che andavano incontro a un viaggio a senso unico verso l’inferno, e poi con libagioni e preghiere sacerdotali tornammo, attraverso la stessa porta di legno tra canti di benvenuto e tamburi.

Ricordo di aver pensato tra me: cosa significa tornare se non sei mai andato via? Chiaramente, per me, un africano che ha vissuto ed è cresciuto nel continente, il ritorno non è stato così carico o toccante come lo è stato per i miei compagni. Ma poi un sorriso si insinuò sul mio viso, un dono senza dubbio dei miei secondi passati nei sotterranei con gli spiriti delle crepe: eravamo di nuovo nelle segrete, di nuovo nei terreni del castello. Questo ritorno non è stato una questione di distanze. Non si trattava di recuperare le origini, ripristinare immagini perdute o conquistare nuovi territori. Si trattava di inversioni queer. Si trattava di problematizzare la localizzabilità.

Grazie e arrivederci, 2023

La profezia ha meno a che vedere con la previsione del futuro che con la riconvocazione del tempo in modi che gli consentano di fare cose diverse. Il profeta non è l’essere umano barbuto, con il bastone in mano, che si trova a cavallo del confine tra il conosciuto e il distante; il profeta è il momento che squarcia la comoda continuità, la crepa che forza una lentezza, l’attraversamento trasversale che solca il cielo azzurro, spezzando il tempo in un milione di luci sfocate, costellazioni di possibilità. Il profeta è la crepa.

Ci sono crepe che danzano sulla superficie delle cose. Le crepe sono luoghi di eccesso, un eccesso che non può essere nascosto o sistemato dalle pieghe del pubblico. Le crepe sono i segni che il sincopato lascia sui corpi mentre scorre. Eventi disabilitanti di massa. Siamo fuori tempo, fuori giri, fuori fase, fuori di noi stessi.

Nelle piccole canzoni di impollinazione, nella musica soffocata delle segrete, nelle melodie agitate che scorrono attraverso luoghi desolati, nelle rivoluzioni più piccole, negli esperimenti molecolari all’interno di reti aracnee, sulle coste del “non ritorno”, qualcos’altro canta. Qualcosa attraversa. Non lo catturerai mai, non completamente. Puoi solo toccare le tracce della sua goffa gloria. Potresti trovarne alcuni pezzi quando noti che le conferenze non stanno facendo tutto ciò che vorremmo, e che abbiamo bisogno di esperimenti para-pedagogici e postattivisti carnevaleschi, forse tanto quanto abbiamo bisogno di istruzioni; potresti notare tracce di “esso” mentre sentiamo il dolore che danza oltre le linee partigiane; potresti avvertire la sensazione di formicolio quando un politico ammette che la politica contemporanea è bloccata su se stessa e non sembra essere all’altezza della situazione. Allora potresti sorridere perché sapresti quello che so io e proveresti quello che sento io: che quando si arriva alla morte, quando si arriva alla porta del non ritorno, quando si tocca l’agnostos theos, il tributo al dio sconosciuto, ciò che è necessario non è una rivolta.

Bayo Akomolafe, Ph.D.
Chennai, India
28 dicembre 2023 (1:30am)

Traduzione: Rebecca Rovoletto
Testo originale: https://www.bayoakomolafe.net/post/why-i-sang-in-the-dungeons-a-prophecy-to-end-the-year-2023?utm_source=brevo&utm_campaign=My%20final%20message%20for%202023&utm_medium=email