Interrompere la scia di feromoni

Ci sono due modi, immensamente popolari e senza dubbio categorici, con cui spesso ci riferiamo al cambiamento sociale: il primo, come fosse una questione di “cambiare il mondo” e il secondo, come fosse questione di “cambiare noi stessi”. Entrambe le idee, delimitate qui in modo provvisorio, non si escludono a vicenda.

Nel primo caso, l’assunto operativo è di avere un mondo agentivamente impoverito; un mondo meccanico e rozzo, un mero riflesso della luminosa intelligenza del sé umano. “Cambiare il mondo” evidenzia in modo rischioso un universo antropocentrico con miracolosi attori umani che si stagliano sullo “sfondo del mondo” – fatto di cose, in ultima analisi, riducibili all’umana socialità.

L’altra idea – quella che si concentra sul “cambiare noi stessi” – deifica la coscienza come fosse la roba stessa di cui è costituito l’universo – e, così facendo, identifica un senso di benessere interno con l’”allineamento” di relazioni armoniose. Questo, naturalmente, come la sua controparte rivolta all’esterno, centralizza il significato, il linguaggio, la presenza e la riflessione. Si tratta di guardare “l’uomo nello specchio”, mettendo in chiaro le nostre priorità prima di affrontare il mondo al di fuori di noi.

Entrambe le idee, dipendendo dalla stessa logica, sono in realtà la stessa cosa: un apartheid delle relazioni tra il sé e il suo contesto; una configurazione affettiva e desiderosa del cittadino come soggetto di diritto; una riduzione dell’esperienza alla dimensione della coscienza. Che “noi” possiamo “cambiare il mondo”, agendo su di esso a partire da una purezza di idee o rivolgendoci verso l’interno, è una mossa che pospone ironicamente “il mondo”, sostituendolo con un artefatto totalizzante adatto agli immaginari moderni.

E allora? Non dovremmo forse fare qualcosa? Dovremmo forse alzare mani e piedi e non fare nulla? Il calcolo che bilancia il “fallire l’appuntamento” con il “non sta succedendo niente” si appropria indebitamente dell’agency come proprietà umana e, cosa ancor più critica, non è in grado di vedere che l’agency (ovvero la capacità di rispondere a/entrare in relazione con) arruola i corpi nei suoi continui flussi e maree e increspature. Anche gli imperativi morali per affrontare circostanze di disuguaglianza e situazioni oppressive sono questioni di territorio, contingenti e soggette a cambiamenti “più grandi”, ad eventi molecolari dentro e intorno a noi.

Quando penso al postattivismo, non lo penso né come mezzo più certo per cambiare il mondo, per cambiare noi stessi, né per non fare nulla. Lo considero come un’interruzione dei modi in cui immaginiamo l’agency e il divenire; come liberazione dai domini sensoriali e dai percorsi affettivi che ritualizzano il familiare; come il prendere vita di altre domande su ciò a cui l’agire è debitore. Il postattivismo non è una intro-versione o una estro-versione, poiché l’architettura che garantisce alle due di non incontrarsi mai è sconvolta da una crepa. Il postattivismo è l’in-mezzo fra le cose, uno scorcio del glitch. Una percezione autistica. Il postattivismo è la chiamata a riunirsi con la disabilità come luogo di generose iniziative e possibilità.

Il postattivismo è una svolta di grazia, una caduta dall’autostrada, un’interruzione della scia dei feromoni. Un rischio cosmico che convoca nuovi problemi e nuove domande: possiamo rischiare di cambiare il mondo? Possiamo rischiare la vittoria? Cos’altro c’è qui?

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Qualcuno mi ha appena chiesto: “qual è il punto del postattivismo?”
La mia risposta è che non esiste un “punto”, solo linee erranti e vagabonde.

Quindi, invece della mitica “caverna di ombre”, immaginate – se volete – una caverna di punti. Un’economia di risposte precise e domande dirette. Un paradigma di chiarezza dove la confusione è considerata patologia. Un mondo di punti. Ora, immaginate quanto sia sconvolgente una linea all’interno di questo cosmo di punti autodelimitati. Una linea ondulata, promiscua, multipla, balbettante, luccicante in un parlamento di puntini sarebbe uno «scandalo» elevato all’ennesima potenza.

Questo è ciò che il postattivismo “è”: non un altro punto, non un’altra affermazione categorica di una qualche ontologia. Al contrario, il postattivismo è il minimale, il più morbido gesto che segna un luogo in cui c’è qualcosa che attraversa, “dove” gli appigli grazie cui comprendiamo il mondo sono spalancati da qualcosa di trasversale e molecolare, ed eminentemente ordinario.

Sulla scia di un tale sbrecciamento delle cose, si rimane senza parole, senza formule e senza voce. In modo ancora più critico, ci si incontra come se fosse la prima volta, toccando le cuciture, i fili, l’ordito e la trama della nostra performatività. Persino la coscienza è disfatta, decentrata e dislocata. Il postattivismo è il segno dell’incontro che capovolge gli algoritmi dell’azione e dell’”agente-che-agisce”, aprendo potenzialmente nuove cartografie dell’attivare-con-il-mondo. Nulla è lasciato intatto da questo attraversamento – nemmeno quel sentimento ripetitivo che fa da imperativo morale secondo cui la cosa da fare oggi, ora, è ‘cambiare il mondo in meglio’.


Bayo Akomolafe
(Immagine: le linee erranti di Fernand Deligny)

Testi originali:
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