Conoscere è un esercizio di perdita

La scienza e la razionalità della città ci hanno fornito intuizioni sul funzionamento della “natura”, ma con l’immagine normalizzata che chiamiamo senza sforzo “natura” si oscurano al contempo altre relazioni. Illuminare è oscurare; ottenere chiarezza puntando una sorgente di luce è creare nuove ombre. Conoscere qualsiasi cosa è un esercizio di perdita, di posture complementari prevedibili, di sensazioni invertite, di stabilità rinforzate, di imbrogli subiti. Manca sempre qualcosa. La domanda non è se la mia o la tua versione del mondo sia vera; non è un ‘va bene tutto’; è: quali nature stiamo co-interpretando e quali altri mondi hanno dovuto morire per farle vivere?

Questa nozione di conoscenza come coagulazione sempre crescente di verità, una messa al bando dell’oscurità, una traiettoria teleologica dall’ignoranza alla raffinatezza, fa parte di una visione appiccicosa della conoscenza che i filosofi potrebbero riconoscere come positivismo. Ed è implicato in modo critico nei regimi più totalitari e oppressivi del colonialismo che hanno perseguitato le nostre storie condivise. Perché il positivismo è problematico ed eticamente irto di pericoli? Perché presuppone che la conoscenza sia ciò che accumuliamo nella nostra testa, e che la logica manageriale di articolare il mondo in modi specifici non abbia costi nascosti. L’Antropocene potrebbe dissentire: pensavamo di essere in viaggio verso il paradiso. Il mondo industriale è la fervida convinzione che trascenderemo sommariamente le forze limitanti della materia. Ma è successo qualcosa sulla via del paradiso. Il mondo ci ha riagguantato, riformulando la conoscenza come relazionale, invece che accumulativa e umano-centrica. Stiamo lentamente imparando che tutto ciò che immaginavamo di aver vinto su noi stessi, strappato alla bestialità della natura, ci è stato prestato, un debito che ora stiamo esprimendo come la poli-crisi che sconvolge la modernità.

[In risposta alla proposta del modello olografico, secondo cui tutto accade nel medesimo momento e nulla è veramente nascosto o perduto] Questo potrebbe essere uno spostamento utile per alcuni: tornare al punto di vista dell’occhio-di-Dio-sul-tutto che sorveglia ogni cosa e non concede a nulla il privilegio di scivolare via. Ma non posso permettermi quella mossa. Non posso permettermi una proposta olografica perché rafforza sottilmente una centralità antropica che trovo profondamente preoccupante. E lo fa non solo assumendo che tutto il tempo profondo, tutte le fluttuazioni, le intensità, le perturbazioni e le inflessioni di un cosmo da indagare, possano essere ridotte all’affermazione che “tutto sta accadendo in una volta”, ma implicando che siamo speciali per il fatto di sapere questo. Ma se nulla è mai perduto (come si potrebbe dedurre dall’espressione di un modello olografico), non significa già che abbiamo perso il senso materiale della perdita e un terragno senso di umiltà, ottenibile col riconoscere che l’essere incarnati significa essere limitati? La perdita non è “essa stessa” persa nel modello olografico? In ogni caso, la perdita è relazionale; penso che per pensare fruttuosamente alla perdita, si debba pensare in modo processuale. Questo non è necessariamente un ripudio del modello olografico, anche se confesso di non essere molto ferrato sull’argomento. Un approccio relazionale rifiuta di centralizzare gli esseri umani come arbitri della realtà e apre lo spazio speculativo alla considerazione della squisita promessa di perdita.

Consentitemi di dire qualcosa in più su cosa intendo quando dico: “conoscere qualsiasi cosa è un esercizio di perdita…” Ho trovato un’utile metafora nel mio libro, che utilizza l’idea dell’ottica e un generico schema di cattura dell’immagine con tecnologie da fotocamera. Se doveste scattare una foto e ingrandire un oggetto di interesse, perdereste l’apertura panoramica. D’altra parte, lo zoom-out potrebbe costarvi in definizione focale ma vi garantirà espansione. In altre parole, è un compromesso tra nitidezza e dispersione. Qualcosa viene dislocato, a seconda che la decisione sia presa in un senso o nell’altro. Allo stesso modo, la conoscenza non è qualcosa che procede dalla nostra testa e si attacca al mondo al di fuori di noi: è il modo in cui i mondi vengono “mondeggiati”. Se trattiamo una montagna come un antenato, è improbabile che la faremo esplodere per fare spazio a un nuovo centro commerciale. L’ordinamento industriale si basa senza dubbio su quel genere di pratiche conoscitive che desiderano convocare il mondo, in modo performativo, attorno all’esclusività dei soggetti umani e alla separabilità del sé individuale. Ci ha permesso di viaggiare sulla luna e ritorno? Sì. Ci ha dato gabinetti, velocità di viaggio e Internet? Sì. Ma ha anche occluso capacità e doti sensoriali che altrimenti potrebbero ‘mondeggiare’ il ‘mondo’ in modo diverso. Il dislocamento che intendo come perdita si riferisce all’esclusione costitutiva che caratterizza ogni corpo dotato di gestualità. Alcuni studi suggeriscono che la nostra crescente dipendenza dalle tecnologie dei social media e dallo smartphone sta aumentando l’incidenza di depressione, ansia e disturbi compulsivi. Che tu sia d’accordo o meno con le categorie del DSM, è sempre più difficile distogliere lo sguardo dall’idea che non stiamo solo “usando” il mondo che ci circonda, ma che il mondo ci sta usando a sua volta. Il fornaio che impasta è anche organizzato, posturalmente, dall’impasto. La conoscenza non è una linea unidirezionale che va da noi a “loro”; la conoscenza è come i corpi sono modificati dall’incontro. Non è una cosa umana; è qualcosa che attiene ai feromoni, una cosa postumanista, una cosa relazionale, una “cosa” “non-cosa”.

Bayo Akomolafe

Testo originale: post e commenti https://www.facebook.com/bayoakomolafeampersand/posts/pfbid0LXCdg9zbQ8CAX4uKwXVEa3yH3VQPgNfSk9apMcXTSVGyR1odsUiwiJGMonnAKWydl